(7 maggio – 13 maggio 2011)
7 maggio – Alle 4 siamo in piedi, partiamo prestissimo. Il primo volo fino a Francoforte è puntuale, la partenza per New York ha invece due ore e mezzo di ritardo, ma come al solito un po’ di recupera e insomma, alle 15 e 30 ora locale siamo già sul taxi verso Manhattan. L’albergo, Staybridge, è buono, forse un po’ decentrato, ma in compenso è vicinissimo alla sede del New York Times disegnata da Renzo Piano, e in linea con Times Square.
Appena disfatti i bagagli e avere recuperato un po’ noi stessi, ci tuffiamo nella città che non dorme mai. E’ un attimo essere piacevolmente coinvolti dal movimento, dalle luci, dai colori, dalla gente, dall’energia che divampa in giro. Times Square, che ora è chiusa al traffico e si propone con seggiole e tavolini a disposizione di chi passa, non ha perso la sua caratteristica di luogo al centro del mondo: impossibile distrarsi dalle animazioni, alcune interattive, tutte belle, che riempiono in continuazione questo spazio.
Facciamo già un po’ di shopping … da M&M.
Cena al ristorante Stardust, quello dove i camerieri cantano i pezzi degli anni ’50, e sono così bravi che ci si chiede come mai non siano in qualche teatro di Broadway (ma siamo a Brodway!).
8 maggio – Mentre ci avviamo verso la meta odierna, scopriamo Bryant Park, un’altra oasi verde all’interno della città con prato, piante, sedie e tavolini a disposizione dei newyorkesi (e dei turisti) che approfittano di queste giornate serene di primavera per stare all’aperto a leggere o fare uno spuntino o due chiacchiere. Una cosa che in Italia è vista come scelta un po’ squallida qui, grazie alla grande cura con cui sono tenuti questi spazi verdi, diventa un’abitudine normale e sana. Al’interno del parco c’è una statua di Gertrude Stein in posa molto confidenziale.
Dopo questo intermezzo ci portiamo sulla 5° Strada, che percorriamo tutta verso nord, in quanto il nostro obiettivo è il Metropolitan Museum of Art. Facciamo l’ultima parte del percorso in Central Park, rigoglioso e fiorito oltre che molto piacevolmente affollato, e raggiungiamo il museo. Si sa che è uno dei più importanti del mondo, ma rimaniamo stupiti di tanta ricchezza. Ogni sezione ha grandi capolavori, la parte dedicata ali artisti americani è ricca e interessante, soprattutto perché sono pochi i nomi conosciuti. La sorpresa maggiore arriva nella sezione dedicata agli impressionisti: pensavamo di aver visto tanti capolavori raggruppati insieme, specialmente a Parigi, ma non avevamo ancora visto la quantità, e la qualità, dei lavori di Van Gogh, Monet, Bonnard, Renoir,oltre a numerosi lavori di Modigliani, Picasso, Braque, Gris e tantissimo altro. Insomma un posto da cui non si uscirebbe mai.
Prima di uscire però, in omaggio alla cultura americana, visitiamo la stanza ideata da Frank Lloyd Wright, ineccepibile per eleganza legata a praticità: questo architetto ha concepito l’abitazione non come stanze separate, ma come un unico ambiente che deve trovare armonia e raccordo anche se diviso in stanze diverse.
Dopo la lunga visita, con un autobus ritorniamo sulla 5° Strada: c’è temo per un po’ dello shopping che dobbiamo fare su commissione. Alla sera, buon cibo americano nel ristorante “Five Napkins”, in Hell’s Kitchen.
9 maggio – Stamattina apprendiamo dalla tv che c’è stato un incidente sulla linea metropolitana che porta a Queens, e ci sono ritardi e cancellazioni … proprio oggi che vogliamo andare al PS1! Ma sfidiamo la sorte e andiamo lo stesso, forse il treno è un po’ più lento del solito, però ci porta a destinazione. La metropolitana di New York dimostra tutti i suoi anni, e ha un’aria un po’ caracollante, ma l’importante è arrivare. Siamo in anticipo, il museo apre a mezzogiorno, e facciamo una passeggiata negli isolati intorno: molti immigrati, case degli anni ’30-’40, belle, caratteristiche con i mattoni a vista e le scale antincendio in facciata; ancora tanti capannoni e la sensazione di stare in un’area industriale, anche un po’ disordinata. In questa zona non si avverte la sensazione che il Queens sia l’area attualmente più in espansione e recupero della città.
Finalmente entriamo: il PS1 si propone come una delocalizzazione del MoMa, dedicato ad artisti giovani o meno noti, oltre che a tecniche meno convenzionali. Lo spazio che lo ospita era una vecchia scuola, con l’esterno in mattoni rossi e l’interno con pavimenti di legno lucidato e scriocchiolante. C’è in mostra una galleria fotografica realizzata da una giovane giapponese, Lurel Nakadate, a mio avviso con poche idee, ma magari si farà … Ci sono i video realizzati negli anni ’60 e ’70 da un gruppo di artiste, secondo me molto centrati, pur nella loro brevità: Modern Woman, Single Channel. Infine c’è una (parte della) mostra di Francis Alys, intitolata A Story of Deception, che è un capolavoro. L’artista utilizza metodi diversi, ma sempre poetici, per spiegare in forma allegorica la realtà sociale, politica ed economica, oltre ai cambiamenti in corso nella nostra società. Impossibile spiegare a parole le sue idee, perché vorrebbe dire impoverirle: con pochi e facili mezzi, è in grado di far riflettere a lungo, anche con un sorriso.
Dopo la sosta al PS1, doverosamente lunga, riprendiamo la metropolitana per tornare a Manhattan, di cui vediamo perfettamente lo skyline, e ci fermiamo sulla Quinta Strada. Siamo un po’ incerti su come passare il pomeriggio, quindi decidiamo di consacrarci ancora alla cultura, ed entriamo al MoMa
Qui la scelta delle cose da vedere è davvero notevole: noi ci fermiamo soprattutto per le immagini degli Espressionisti Tedeschi, per le chitarre di Picasso e per la collezione del Museo, ed è tutto di grande soddisfazione. Non mi viene in mente un altro museo di arte moderna così ricco e dinamico nel proporre progetti nuovi e insoliti. La cena è al Red Lobster, in Times Square, aragosta del Maine, ottima, a volontà.
10 maggio – La mattinata comincia con una visita a Carlo Medori, simpatico personaggio ultra ottantenne, che vive a New York da 40 anni e si propone per consigli e visite alla città. In realtà, quello che ci racconta è abbastanza banale, ma non è il caso di contraddirlo, e ce ne andiamo con qualche piantina scritta a mano e una lista di ristoranti a cui appoggiarsi qui a NY. Prendiamo la metropolitana per farci portare alla punta più estrema di Manhattan, e visitiamo subito il Museo dedicato agli Indiani d’America. Il museo è molto interessante, ricco di testimonianze dedicate ai tempi d’oro della Horse Nation, ma secondo me la cosa più interessante è la mostra di Preston Singletary, un americano nato e cresciuto in Alaska che forgia oggetti in vetro colorato ispirandosi alla natura in cui è cresciuto e alle sue origini culturali e artistiche.
Il museo è ospitato in uno splendido palazzo sontuoso e rigoroso, con tanto legno caldo nelle decorazioni, ispirate alla rivoluzione industriale e alla immigrazione.
Dalla riva del mare iniziamo una lunghissima passeggiata che ci porterà a Ground Zero (stato avanzamento lavori), Nolita, Soho, Greenech Village (tutte zone già conosciute ma sempre apprezzate per le belle case dell’800 e la misurata vivacità che le caratterizza), fino al Meatpacking District, quartiere ancora fortemente industriale, ma in evidente rilancio, con una strepitosa passeggiata vista mare attrezzata con sedie, tavolini e sdraio e disposizione di chi passa. Ancora verso la nostra base, incrociamo il Madison Square Garden e la Penn Station (qui ci concediamo una birra fresca) . Finiamo la giornata da Tad’s, un gradevole ed economico ristorante self service specializzato in carne alla griglia.
11 maggio – Stamattina andiamo ad Harlem, un bel quartiere ormai multietnico, pulito e ordinato, con belle case stile british e ancora alcuni complessi residenziali fortemente popolari, a rimarcare che qui non si vive sempre nella “New York da bere”. Mentre cerchiamo la Columbia University, quasi per caso attraversiamo uno splendido parco, il Morningside, un’oasi di silenzio. Arriviamo al campus, dove fervono i lavori in preparazione della festa di sabato prossimo, per celebrare i laureati di quest’anno. A pochi passi sorge la chiesa meravigliosa di St. John Le Divine, meravigliosa non solo per la sua struttura architettonica,ma soprattutto per la varietà di culti che vi sono rappresentati.
Immagino che la chiesa sia ancora sconsacrata, visto come accoglie le altre fedi, e mi piace copiare qui sotto una bella iscrizione tratta da un altare giapponese.
Da Harlem, con una corsa in metropolitana, andiamo sulla Prince Street per un’ultima passeggiata-shopping. Mentre si avvicina il tramonto, saliamo sul Top of the Rock, al Rockfeller Center, e ancora una volta rimaniamo incantati davanti alla bellezza di questa città, che è cresciuta in altezza oltre che in larghezza, armonizzando costruzioni centenarie con i grattacieli degli anni ’50, così solidi, e le recenti costruzioni in vetro che regalano riflessi e luminosità in continua trasformazione. Da una parte l’Empire State Building, dall’altra la distesa di Central Park, tutto intorno il mare. Stasera si cena al Bubba Gamp, troppo divertente (e molto buono!).
12 maggio – Oggi andiamo a Brooklyn, per valutar di persona cosa c’è e come si muove questo quartiere diventato molto alla moda. La prima tappa è il Centro Visitatori, dove raccogliamo qualche informazione e molte piantine. Facciamo l’errore di sottovalutare la distanza con il Museo di Brooklyn, e ci andiamo a piedi, facendo così una passeggiata tra il traffico congestionato e sotto un sole cocente. Il museo do Brooklyn vale assolutamente una visita attenta e tranquilla, sia per l’edificio che lo ospita, sia per la quantità di reperti e opere d’arte che ospita. In questi giorni c’è anche una bella mostra dedicata ai Tipi degli indiani d’America, dove sono presentati anche molti oggetti di uso casalingo che, soprattutto, mettono in risalto la differenza tra i diversi ruoli e le contaminazioni con i diversi momenti storici, da quando gli indiani erano popoli liberi e padroni dei loro spazi, alla deportazione nelle riserve, fino al riconoscimento della loro identità culturale e la conseguente posizione di cittadini americani a tutti gli effetti.
Tra le tante e importanti opere ce n’è una che non conoscevo, e che è invece di grande importanza, in quanto rappresenta il principale monumento dedicato al movimento femminista: si tratta di The Dinner Party di Judy Chicago, una tavola apparecchiata che ospita la metaforica presenza di 999 donne che hanno lasciato una traccia profonda nella storia. Curioso che siano vicine due delle mie preferite: Virginia Wolf e Georgia ‘ Keeffe.
Dopo il museo ci spostiamo nel quartiere di Brooklyn Heights, con le sue belle case dell’800 affacciate sull’acqua, proprio di fronte alla Statua della Libertà, e proseguiamo fino a Dumbo (Down Under Manhattan Bridge Overpass), dove i vecchi magazzini sono diventati luminose abitazioni, e si aprono le gallerie d’arte. Tutta quest’area in riva al mare, con la splendida vista di Manhattan davanti e i giardini fioriti, è bellissima.
Lasciamo Dumbo e ritorniamo a Manhattan, a piedi, attraverso il Ponte di Brooklyn. La cena stasera è con ostriche e pesce fresco all’interno della stazione di Grand Central.
13 maggio – Stamattina il programma è per un visita al Whitney Museum, ma siccome scopriamo che il museo apre all’una, decidiamo di ingannare l’attesa con una passeggiata esplorativa in Madison Avenue. Siamo nell’Upper East Side, e non c’è bisogno di tante spiegazioni per capire che siamo nella zona più chic di New York: case esclusive e bellissime, negozi con le firme più famose, soprattutto italiane e francesi. Casualmente entriamo in una galleria d’arte e cogliamo le seguenti opportunità: vedere una bella mostra di pittura (di un particolare autore alle linee morbide e colorate), vedere una mostra fotografica di ritratti di Avedon, ritratti di persone molto famose, si intende; infine, visitare il lussuosissimo interno di un palazzo in questa zona della città.
Il Whirney Museum, ospitato in una sede dedicata e molto bella, ha caratteristiche un po’ diverse da quelle trovate fin’ora, perché presenta poche opere, non affastellate, il che fa sì che si possano gustare con la giusta attenzione e partecipazione. All’ingresso c’è la piccola esposizione di una giovane artista , Dianna Molzan, intitolata Bologna Meissen: l’autrice, che si ispira anche a Giorgio Morandi, con pochi e semplici gesti riesce a trattare la tela in modo veramente particolare e poetico.
Un piano è dedicato a una selezione di opere moderne, quasi pop, ognuna diversa e pregevole, ricca del significato che principalmente accomuna gli artisti oggi, ovvero la solitudine e la difficoltà di comunicare, pur in mezzo alla folla. Un piano, infime, propone il nuovo progetto del Museo, che vuole offrire in un arco di tempo di più anni, i pezzi più significativi della collezione, raggruppati per periodi diversi. Si comincia proprio adesso, con gli anni ’20 e ’30: le opere selezionate sono tutte molto interessanti (alcune molto belle) e ci sono lavori della fondatrice del museo, Gertrude Vanderbilt Whitney.
E’ una visita rilassante, un po’ anticonvenzionale, di ampia soddisfazione. Torniamo presto in albergo perché, ahimè, oggi si parte: dopo qualche brivido causati dal ritardo nel trovare una macchina per l’aeroporto, e il traffic jam del venerdì sera, arriviamo al JFK sani e salvi, e puntuali.
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